Invito

Michela continuava a fissarmi, con la bocca aperta e quello sguardo da impasticcata cronica. Parlare con lei non era mai una conversazione, sembrava più un sequestro. La distanza con l’interlocutore era sempre minima e gli occhi rotondi e fermi non mollavano mai la presa.
“Interessante”, buttai lì, annoiata. “Un pranzo tra colleghi”.
Indietreggiai di qualche passo. Sentivo mancarmi l’aria. Oltretutto era appena iniziata la mia pausa.
“Sì, l’idea sarebbe questa”. Le sue parole erano sempre scandite molto, troppo lentamente. Era un vezzo che odiavo. “Sto raccogliendo le adesioni…”, sorrise ebete. “Mia mamma vuole sapere quanti siamo”.
Sperai di liberarmi presto ma non mi venne in mente una scusa credibile per declinare l’invito. No che non ci volevo andare a quel pranzo. Dei miei colleghi ne stimavo a stento tre su diciannove. E poi da Michela… No. Di fuori di testa ne ronzavano già a sufficienza nella mia vita. Trovarmela al lavoro poteva bastare.
Diedi un’occhiata in giro, spazientita. Qualcuno era ancora in cuffia. Ale e Peppe erano due puntini lontani che scomparivano nel corridoio. Giulia stava concludendo una telefonata. Mi lanciò uno sguardo d’intesa. Sghignazzò.
“Capisco”, bofonchiai, distratta.
“Non temere”, fece Michela, senza mollare i miei occhi che la schivavano. Mi porse un foglio spiegazzato. La lista di tutti noi. Qualche nome era stato già tagliato, accanto ad altri invece Michela aveva aggiunto una nota a matita, con quella sua grafia da prima elementare. In alto, al centro del foglio, una scritta in rosso recitava I miei invitati. Un rigurgito di tenerezza mi assalì all’improvviso. “Oltre alla tua, attendo altre risposte”, completò, lamentosa.
A quel punto feci per sistemare la sedia, cominciando a rovistare dentro la borsa solo per prender tempo.
“Considerami pure tra i presenti”, dissi d’un fiato.
Feci per andare, le diedi le spalle. Mi scappò una parolaccia.

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