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Invito
Michela continuava a fissarmi, con la bocca aperta e quello sguardo da impasticcata cronica. Parlare con lei non era mai una conversazione, sembrava più un sequestro. La distanza con l’interlocutore era sempre minima e gli occhi rotondi e fermi non mollavano mai la presa.
“Interessante”, buttai lì, annoiata. “Un pranzo tra colleghi”.
Indietreggiai di qualche passo. Sentivo mancarmi l’aria. Oltretutto era appena iniziata la mia pausa.
“Sì, l’idea sarebbe questa”. Le sue parole erano sempre scandite molto, troppo lentamente. Era un vezzo che odiavo. “Sto raccogliendo le adesioni…”, sorrise ebete. “Mia mamma vuole sapere quanti siamo”.
Sperai di liberarmi presto ma non mi venne in mente una scusa credibile per declinare l’invito. No che non ci volevo andare a quel pranzo. Dei miei colleghi ne stimavo a stento tre su diciannove. E poi da Michela… No. Di fuori di testa ne ronzavano già a sufficienza nella mia vita. Trovarmela al lavoro poteva bastare.
Diedi un’occhiata in giro, spazientita. Qualcuno era ancora in cuffia. Ale e Peppe erano due puntini lontani che scomparivano nel corridoio. Giulia stava concludendo una telefonata. Mi lanciò uno sguardo d’intesa. Sghignazzò.
“Capisco”, bofonchiai, distratta.
“Non temere”, fece Michela, senza mollare i miei occhi che la schivavano. Mi porse un foglio spiegazzato. La lista di tutti noi. Qualche nome era stato già tagliato, accanto ad altri invece Michela aveva aggiunto una nota a matita, con quella sua grafia da prima elementare. In alto, al centro del foglio, una scritta in rosso recitava I miei invitati. Un rigurgito di tenerezza mi assalì all’improvviso. “Oltre alla tua, attendo altre risposte”, completò, lamentosa.
A quel punto feci per sistemare la sedia, cominciando a rovistare dentro la borsa solo per prender tempo.
“Considerami pure tra i presenti”, dissi d’un fiato.
Feci per andare, le diedi le spalle. Mi scappò una parolaccia.
Scende la notte
Nico si rifugiò in camera sua sbattendo la porta, gli occhi in preda alle fiamme. Non si accorse che poco più in là, Leo e la piccola Natalie si stringevano impauriti, ché quando Nico litiga con papà non si sa mai cosa può succedere.
“Lascia perdere, lo sai che non serve a niente”.
Leo aveva dodici anni e molto giudizio. Con discrezione posò lo sguardo sulla guancia arrossata di Nico. Il bruciore di uno schiaffo in piena faccia lui poteva solo immaginarlo, vantaggio d’eccezione per esser venuto al mondo e cresciuto quando Antonio Renzi era impegnato a seminare guai in giro per l’Europa.
Nico non gli rispose nemmeno. Tirò un primo pugno alla parete, croste d’intonaco a scivolare giù in uno sbuffo di polvere. Un secondo sulla scrivania fece volare una biro per aria.
Leo provò ancora una volta. “Nico, adesso basta”.
“Sta’ zitto!” La voce del fratello uscì a fatica, facendosi spazio tra le mascelle serrate.
“No che non sto zitto. Così la spaventi”.
“Zitto, ho detto. Cazzo!”
L’ultimo pugno, il più violento, Nico lo diresse alla porta. Seguì un attimo di silenzio in cui gli occhi gli si riempirono di lacrime. Provò a nascondersi il viso tra le mani. Una era dolente e ferita. Leo capì che il peggio doveva ancora arrivare. Strinse Natalie ancora più forte e le intonò una ninnananna. La notte incuriosita cominciò a spiarli dalla finestra.
La lezione è finita
Il Gresta richiuse il volume con il solito gesto reverenziale. Era ancora seduto e silenzioso quando Cesare preannunciò che stava per entrare in trance, quel pissicopatico. Il ragazzo soffocò una risata e fece segno a Giuliano e Viola di non perdersi lo spettacolo.
In quel momento, il Gresta si alzò. Stringeva ancora il volume tra le mani. Lentamente lo mostrò al suo pubblico, poi se lo schiacciò sul petto e le sue pupille cominciarono a roteare girando a vuoto per un po’.
“Ohmmm”, gli fece il verso qualcuno dalle file più alte.
Giuliano cominciava seriamente a non poterne più di quella farsa. Gli dava la nausea quel ridicolo rituale.
Spazientito, sbirciò l’ora sul polso di Viola. Mancava poco ormai e la sua amica sembrò rendersene conto all’improvviso. Nel massimo silenzio, raccolse celere le sue cose. Mise via il cellulare, preparò le chiavi. Sembrava assente e distratta. Giuliano si accorse di non averle sentito uscire neanche una parola di bocca, durante la lezione.
Alle diciassette in punto, esplose una scarica di schiamazzi dal corridoio.
«Evvai!», festeggiò Cesare.
Tutto contrito, il Gresta interruppe una litania incomprensibile. Sembrò risvegliarsi da un lungo sonno. Non si accorse neanche che l’uscita si era già trasformata in una trappola a forma di imbuto quando, con una smorfia di dolore che gli sfregiò i lineamenti, annunciò che la lezione era finita, amen.
“Che dici, Giulià?”, fece Cesare, indicando il professore, e la mano destra impegnata in un tipico gesto scaramantico maschile.
L’amico lo guardò interrogativo.
“Non pare che gli muore qualcuno, ogni volta? A me mi pare tutto scemo, questo”.
Giuliano rise tra sé, senza riuscire a spiegarsi che ci facesse un tipo come Cesare in quell’ambiente.
Era tipico di Giuliano Sesti starsene in disparte a giudicare gli altri. Appollaiato sui gradoni, le ginocchia piegate all’altezza del mento, anche in quella occasione, dall’alto scrutava tutto e tutti e, ogni tanto, il labbro gli si distendeva a muto commento di qualcosa.
Attesa
Pochi minuti ancora.
Mi accingo ad appostarmi nel punto che ho stabilito. Da lì potrò vederlo uscire senza essere vista.
Perfetto.
Ancora qualche passo e poi…
“Ahhhaaaaaaa!”
Riempio le mie narici di aria per riavermi un attimo dallo shock. Intercetto in lontananza i due gatti che mi hanno appena tagliato la strada, cercando di capire nel frattempo, se il mio urletto stridulo possa aver allertato qualcuno. Ma non mi pare di scorgere tracce di umana presenza.
Molto bene.
Torno quindi ad occuparmi della mia vita sentimentale non potendo fare a meno di roteare le mie innamorate pupille verso il cielo che, mi rendo conto solo adesso, è completamente nascosto da un terrificante damasco di nuvole temporalesche. Oltretutto, mi cingo in un abbraccio, che temperatura polare questa sera!
Ma non mi interessa.
In un gesto involontario però, mi ritrovo ad osservare le mie mani. Ma sì… dopotutto il viola mi dona. E poi, a guardarla bene, questa nuance un po’ livida ma terribilmente di moda fa pendant con la mia sciarpa color glicine.
“Ciao, Fernanda! A domani.”
Una voce femminile e dei passi spezzano la catena dei miei pensieri quando ancora non ho raggiunto la mia postazione.
“Oh, Vittorina. Ciao. Non ti avevo vista… Finito?”
Mentre la mia collega saltella gli ultimi gradini prima di guadagnare l’area parcheggio, mi rendo conto che i suoi occhi inquisitori dentro i miei sono un’inaudita ed insopportabile violazione della privacy.
Che si sia già sparsa la notizia della mia ridicola cotta adolescenziale?
Nel dubbio, le restituisco un’occhiata truce soffiando un po’ dal naso. Il mio chiaro intento è quello di metterle paura e Vittorina, in genere viscida e appiccicosa come la bava di una lumaca, va subito via rinunciando ad inutili spargimenti di sangue.
Di nuovo sola, mi affretto per nascondermi.
Ma quanto mancherà ormai alla fine della lezione? Di solito, è puntuale.
Le mie dita tremano in un modo indecoroso. E i denti… la smettessero di fare tutto ‘sto baccano.
Il mio cuore invece è una grancassa ad una festa di paese.
Tutt’a un tratto avverto dei rumori. Forse ci siamo.
Questi ultimi attimi sono un vortice che mi risucchia nell’incoscienza. Provo a restare lucida. Mi concentro su una foglia umidiccia che fluttua in cielo disegnando ampie curve sospinta dal vento.
Un attimo dopo ce l’ho lì, sfracellata sulla guancia.
Che schifo.
La afferro infastidita. La scaglio più lontano che posso…
Dritta come una freccia sul suo paltò.
Silenzio
Ah! Doccia. Doccia battente, bollente, ubbidiente, cascante.
E acqua. Acqua, vapore, rumore, fragore, senza parole. Perché sotto l’acqua nessuno ti sente. E poi, anche quando, non si capirebbe niente.
Perciò silenzio.
Di acqua che scorre.
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E di me che penso all’acqua che scorre in silenzio.
Perché è solo questo a cui voglio pensare.
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