Segreti di famiglia

“Ma dici sul serio? Hai seriamente intenzione di restare qui dentro? Senti che puzza che c’è” .
Giuliano non rispose nemmeno. Aprì un cassetto, vi rovistò dentro. Ne aprì un altro. Quasi non lo avvertiva nemmeno quel putrido olezzo che impregnava tutto.
“Ma che ti frega di ‘sto vecchio pazzo?”, continuò Nico. “Oh, se non mi frega a me. Dai, andiamo, Giulià”.
“Voglio capire. Vattene tu, se vuoi “.
Nico ruggì un’imprecazione. Si muoveva a piccoli passi, poggiando una mano alla parete per mantenersi in equilibrio. Provò a mettere a fuoco la sagoma di Giuliano che poco più in là, dal centro della camera,  stava ficcando il naso ovunque. Non riusciva proprio a capire che s’aspettasse di trovare il suo amico in casa di un povero vecchio scimunito. E Gino lo era, scimunito. Cavolo, se lo era. Lo sapeva tutto il paese. S’era fatto conoscere da tutti, quel coglione. Figurati se poteva essergli parente. No, quell’uomo non era suo nonno. Non poteva essere. Quella sola idea bastava a mandarlo fuori di testa. Spazientito, Nico prese a rosicarsi un dito. Sputò una pellicina e mosse qualche passo verso l’uscita. Con noncuranza, tirò un calcio a qualcosa che si ritrovò tra i piedi e che con quella penombra non riuscì ad identificare. L’oggetto prese a slittare veloce sul pavimento, accompagnato da suoni metallici.
“Che cosa è stato?” chiese Giuliano, interrompendo di colpo le sue ricerche.
“‘Cazzo ne so. Forse un baule. Non si vede niente co’ ‘sto buio del cazzo.” La voce gli uscì graffiata, mentre dentro di sé, Nico sentiva montare una rabbia sconosciuta.
Giuliano lo raggiunse in un lampo.

E le stelle?

Notte.
Notte serena. Poche stelle.
Sembrano così piccole da quaggiù.
Stelle che brillano senza far rumore.
Stelle che rubano buio al cielo.
Stelle come lacrime dorate che scendono nel silenzio.
Che piangono brillando nella notte.
Stelle che, quando ci sono, la fanno bella, la notte. Come una donna innamorata.
Perciò peccato. Proprio poche stelle stanotte.
Poca luce.
Bah, forse sono solo i vetri della mia finestra appannati dal fumo delle auto che passano.
O forse dove sono io è ancora più notte di dove è notte.
Quindi quasi nessuna stella per me stanotte.
Solo notte.
Pensa la sfiga, a volte!

Occasione perduta

Il foglio comincia a fissarmi storto. Ha l’espressione tipo che cavolo c’hai da guardare da un’ora! E non posso mica dargli torto.
Del resto è sempre così. Quando uno sa di avere finalmente un giorno intero tutto per sé, con un mucchio di tempo per scrivere, scrivere e scrivere, mai che gli venisse in mente una sola idea che fosse una. E se ne rimane lì, con quella smorfietta un po’ sognante un po’ fraunpomaddormento a puntare imperterrito la pagina bianca. E poi è normale che dopo un po’ quella s’incavola. Così, per difesa, comincia a lanciare quelle stelline di luce fino a quando gli occhi non bruciano così tanto che a un certo punto non ce la si fa più a trattenere le lacrime. Perciò ci si allontana piangendo. Per la sconfitta e per l’impotenza. Per l’occasione perduta. Perché quello che uno avrebbe dovuto scrivere non potrà leggerlo mai, perso per sempre come un ricordo dimenticato.

Sempre un piacere

“Certo! Inf…, infatti! Come dici? Ah, -ente. Sì. Sì. …più mondo. … l’altro… Uh, uh. -usto. Appunto, infatti. -listo. Comunque, stavo dicen… -oglio. … che era me… Inf… infatti. Ma anch… -etto. Ovvio. … tant… Però volevo dire che… -ista. Renditi conto. In… Che… ceeeertoo! Ti seguo, sì. -itto. … di carta… Io? Sì, ti dicevo appunto che… addirittura!! Assurdo. Nel po… No, io invece… Sì, me lo ricordo. Ah, ah. …. quasi pe…. Ah ah. -olta. Come dici? Fretta. Certo. -entiamo, sì. Quando vuoi. Anche a me ha fatto piac…. con te. Ciao Giul… Sì. Ciao.”

Invito

Michela continuava a fissarmi, con la bocca aperta e quello sguardo da impasticcata cronica. Parlare con lei non era mai una conversazione, sembrava più un sequestro. La distanza con l’interlocutore era sempre minima e gli occhi rotondi e fermi non mollavano mai la presa.
“Interessante”, buttai lì, annoiata. “Un pranzo tra colleghi”.
Indietreggiai di qualche passo. Sentivo mancarmi l’aria. Oltretutto era appena iniziata la mia pausa.
“Sì, l’idea sarebbe questa”. Le sue parole erano sempre scandite molto, troppo lentamente. Era un vezzo che odiavo. “Sto raccogliendo le adesioni…”, sorrise ebete. “Mia mamma vuole sapere quanti siamo”.
Sperai di liberarmi presto ma non mi venne in mente una scusa credibile per declinare l’invito. No che non ci volevo andare a quel pranzo. Dei miei colleghi ne stimavo a stento tre su diciannove. E poi da Michela… No. Di fuori di testa ne ronzavano già a sufficienza nella mia vita. Trovarmela al lavoro poteva bastare.
Diedi un’occhiata in giro, spazientita. Qualcuno era ancora in cuffia. Ale e Peppe erano due puntini lontani che scomparivano nel corridoio. Giulia stava concludendo una telefonata. Mi lanciò uno sguardo d’intesa. Sghignazzò.
“Capisco”, bofonchiai, distratta.
“Non temere”, fece Michela, senza mollare i miei occhi che la schivavano. Mi porse un foglio spiegazzato. La lista di tutti noi. Qualche nome era stato già tagliato, accanto ad altri invece Michela aveva aggiunto una nota a matita, con quella sua grafia da prima elementare. In alto, al centro del foglio, una scritta in rosso recitava I miei invitati. Un rigurgito di tenerezza mi assalì all’improvviso. “Oltre alla tua, attendo altre risposte”, completò, lamentosa.
A quel punto feci per sistemare la sedia, cominciando a rovistare dentro la borsa solo per prender tempo.
“Considerami pure tra i presenti”, dissi d’un fiato.
Feci per andare, le diedi le spalle. Mi scappò una parolaccia.

Scende la notte

Nico si rifugiò in camera sua sbattendo la porta, gli occhi in preda alle fiamme. Non si accorse che poco più in là, Leo e la piccola Natalie si stringevano impauriti, ché quando Nico litiga con papà non si sa mai cosa può succedere.
“Lascia perdere, lo sai che non serve a niente”.
Leo aveva dodici anni e molto giudizio. Con discrezione posò lo sguardo sulla guancia arrossata di Nico. Il bruciore di uno schiaffo in piena faccia lui poteva solo immaginarlo, vantaggio d’eccezione per esser venuto al mondo e cresciuto quando Antonio Renzi era impegnato a seminare guai in giro per l’Europa.
Nico non gli rispose nemmeno. Tirò un primo pugno alla parete, croste d’intonaco a scivolare giù in uno sbuffo di polvere. Un secondo sulla scrivania fece volare una biro per aria.
Leo provò ancora una volta. “Nico, adesso basta”.
“Sta’ zitto!” La voce del fratello uscì a fatica, facendosi spazio tra le mascelle serrate.
“No che non sto zitto. Così la spaventi”.
“Zitto, ho detto. Cazzo!”
L’ultimo pugno, il più violento, Nico lo diresse alla porta.  Seguì un attimo di silenzio in cui gli occhi gli si riempirono di lacrime. Provò a nascondersi il viso tra le mani. Una era dolente e ferita. Leo capì che il peggio doveva ancora arrivare. Strinse Natalie ancora più forte e le intonò una ninnananna. La notte incuriosita cominciò a spiarli dalla finestra.

Leggendo, scriverò

Ho scoperto che più leggo e più ho voglia di scrivere.

La lezione è finita

Il Gresta richiuse il volume con il solito gesto reverenziale. Era ancora seduto e silenzioso quando Cesare preannunciò che stava per entrare in trance, quel pissicopatico. Il ragazzo soffocò una risata e fece segno a Giuliano e Viola di non perdersi lo spettacolo.
In quel momento, il Gresta si alzò. Stringeva ancora il volume tra le mani. Lentamente lo mostrò al suo pubblico, poi se lo schiacciò sul petto e le sue pupille cominciarono a roteare girando a vuoto per un po’.
“Ohmmm”, gli fece il verso qualcuno dalle file più alte.
Giuliano cominciava seriamente a non poterne più di quella farsa. Gli dava la nausea quel ridicolo rituale.
Spazientito, sbirciò l’ora sul polso di Viola. Mancava poco ormai e la sua amica sembrò rendersene conto all’improvviso. Nel massimo silenzio, raccolse celere le sue cose. Mise via il cellulare, preparò le chiavi. Sembrava assente e distratta. Giuliano si accorse di non averle sentito uscire neanche una parola di bocca, durante la lezione.
Alle diciassette in punto, esplose una scarica di schiamazzi dal corridoio.
«Evvai!», festeggiò Cesare.
Tutto contrito, il Gresta interruppe una litania incomprensibile. Sembrò risvegliarsi da un lungo sonno. Non si accorse neanche che l’uscita si era già trasformata in una trappola a forma di imbuto quando, con una smorfia di dolore che gli sfregiò i lineamenti, annunciò che la lezione era finita, amen.
“Che dici, Giulià?”, fece Cesare, indicando il professore, e la mano destra impegnata in un tipico gesto scaramantico maschile.
L’amico lo guardò interrogativo.
“Non pare che gli muore qualcuno, ogni volta? A me mi pare tutto scemo, questo”.
Giuliano rise tra sé, senza riuscire a spiegarsi che ci facesse un tipo come Cesare in quell’ambiente.
Era tipico di Giuliano Sesti starsene in disparte a giudicare gli altri. Appollaiato sui gradoni, le ginocchia piegate all’altezza del mento, anche in quella occasione, dall’alto scrutava tutto e tutti e, ogni tanto, il labbro gli si distendeva a muto commento di qualcosa.

Le sue parole

Lo spazio tra me e le sue parole si accorciava sempre di più. Mi sembrava di poterle vedere sfrecciare, minuscole spade rabbiose e deluse lanciate per trafiggermi da parte a parte.
Rimasi immobile di fronte al pallore sdegnato di Kathy, sporcando la stanza con la mia sola presenza. Mi sentivo come ricoperto di sudicie e spesse croste di catrame, e capì che mai più avrei potuto scucirmi l’anima dal nero di miseria e arroganza di cui avevo imparato a vestirla.
Quando le lame diventarono troppo vicine, trattenni il respiro e le accolsi dentro di me, sperando che mi ferissero a morte. Il contraccolpo mi lasciò senza fiato e mi sembrò di impazzire. In quello stesso momento, dalla finestra una piccola luce tremante tagliò di netto il nero della stanza. Debolmente puntai Kathy, sfigurata dal dolore e capii di non poterlo sopportare.

Sogno di una notte… e basta!

 

 

 

 

 

E’ una crosta? E’ un insulto? E’ un’indecenza? E’ una porcheria porcheriosa? Una oscena mostruosità? Un ridicolo refuso pittorico? Uno scarabocchio da principianti?
Io di certo non c’entro. Non volevo. Non ho sentito. Non ho visto. Non c’ero…
Già, non c’ero con la testa.
Sognavo semplicemente la luna sulla mia finestra.